C’è una parola che attraversa silenziosamente le lotte civili, le riflessioni filosofiche, le richieste di riconoscimento nei luoghi di lavoro: autodeterminazione.
Una parola potente, spesso data per scontata, ma ancora oggi negata, discussa o fraintesa.
Nel suo significato più semplice e radicale, autodeterminarsi significa poter decidere chi si è, chi si vuole essere e come vivere la propria vita senza dover chiedere permesso, senza dover spiegare, senza subire la pressione di modelli imposti.
Il diritto di scegliere (anche sul lavoro)
Nel contesto giuridico e politico, l’autodeterminazione è un diritto riconosciuto: lo è in ambito sanitario, nella libertà di scelta delle cure, e nella sfera personale, quando si parla di orientamento sessuale e identità di genere.
Per esempio, per molte persone con disabilità – fisiche, sensoriali, croniche o psichiche – autodeterminarsi significa poter decidere come vivere, muoversi, comunicare, lavorare, senza che siano altri a stabilire cosa è possibile e cosa no. È poter scegliere gli strumenti, i tempi, le modalità con cui partecipare alla vita professionale e sociale, senza dover continuamente negoziare la propria legittimità.
Il riconoscimento istituzionale, culturale e organizzativo non è un “plus”: è ciò che rende la scelta realmente possibile.
Allo stesso modo, per le persone trans, non binarie e gender non-conforming, autodeterminarsi è un atto di sopravvivenza: scegliere il proprio nome, il proprio pronome, il proprio corpo, e di conseguenza vedere queste scelte riconosciute da istituzioni, leggi, ambienti professionali.
Ma al di là del perimetro giuridico, l’autodeterminazione è anche una questione culturale.
Significa poter essere sé stesse senza doversi adattare a un’idea dominante di normalità, produttività, leadership, genere o comportamento.
E in azienda? Anche qui, autodeterminarsi è tutt’altro che scontato. Per esempio, significa poter:
- scegliere se e come fare coming out sul proprio orientamento sessuale o relazionale, senza timore di ripercussioni;
- esprimere la propria identità – non solo di genere, ma anche culturale, linguistica, spirituale – senza doversi “normalizzare” per risultare accettabili;
- rifiutare modelli di leadership o di carriera che non rispecchiano i propri valori;
- accedere a percorsi flessibili e non punitivi, che riconoscano l’unicità delle vite e dei corpi, non solo le performance.
Come ricorda l’economista Amartya Sen, la libertà non si misura solo in termini di assenza di vincoli, ma nella possibilità concreta di scegliere il proprio percorso di vita, di seguire un percorso che abbia senso per chi lo vive, non solo per chi lo osserva dall’esterno.
Applicato al contesto lavorativo, questo significa che autodeterminarsi non è una teoria, ma richiede condizioni reali per diventare pratica: politiche inclusive, cultura organizzativa aperta, un linguaggio rispettoso, e la consapevolezza diffusa che non esiste un solo modo “giusto” di stare al lavoro.
Una parola fondamentale per il riconoscimento della propria identità
Il concetto di autodeterminazione non nasce nei manuali di management. Sebbene abbia origini nella filosofia politica e nel diritto internazionale, è stato reinterpretato e arricchito dai movimenti femministi, LGBTQIA+, per i diritti delle persone con disabilità e antirazzisti, che lo hanno trasformato in una pratica quotidiana di resistenza e affermazione identitaria.
Per la filosofa Judith Butler, l’identità non è un’entità stabile, ma un processo che si realizza nel tempo, nella relazione e nel linguaggio. Nel saggio Beside Oneself: On the Limits of Sexual Autonomy, contenuto in Undoing Gender (2004), Butler scrive che la possibilità di esistere come soggetti dipende dalla relazione con gli altri e dal riconoscimento che riceviamo:
“La possibilità non è un lusso; è cruciale come il pane.”
Questa frase non parla solo di diritti astratti, ma richiama la realtà quotidiana di chi, senza riconoscimento, senza possibilità di nominarsi, subisce marginalizzazione o annullamento.
Nel contesto lavorativo, questo si traduce nella necessità di ambienti in cui le persone possano esprimere la propria identità senza filtri, paure o compromessi.
Valorizzare l’unicità delle persone non può prescindere dal riconoscere le loro identità per quello che sono, non per quello che dovrebbero essere secondo modelli dominanti. È così che un’organizzazione inclusiva non impone adattamenti, anzi: crea spazi dove l’identità non solo è ammessa, ma abilitata a esprimersi.
Autodeterminazione e promozione delle unicità: un legame profondo
Per un’azienda, promuovere l’unicità delle persone allora non significa solo correggere i bias o rivedere le policy, ma anche creare spazi dove l’autodeterminazione è possibile, concreta, protetta.
Questo comporta, tra le altre cose:
- rendere il linguaggio aziendale realmente inclusivo, in grado di nominare con rispetto corpi, esperienze e identità diverse;
- rispettare l’identità di genere e il nome scelto dalle persone trans e non binarie, anche nei documenti interni;
- rispettare i modi di comunicare, muoversi o lavorare di chi convive con disabilità, neurodivergenze o condizioni croniche;
- permettere che i corpi e le vite escano dagli standard;
- accogliere pratiche culturali, spirituali o linguistiche che si discostano da quelle dominanti, senza trasformarle in eccezioni da tollerare;
- evitare di incasellare, e invece aprire alla pluralità delle traiettorie, e delle forme di espressione.
È in questi ambienti che l’autodeterminazione diventa non solo un diritto individuale, ma un valore organizzativo: perché solo chi ha la libertà di essere, può davvero contribuire in modo creativo, consapevole e generativo.
Scegliere chi si è, ogni giorno
In un mondo che ci vuole conformi, autodeterminarsi è un atto rivoluzionario. Chi rivendica autodeterminazione non chiede un privilegio, ma un diritto fondamentale: quello di esistere nella propria verità, senza doversi giustificare, tradurre o correggere.
Significa reclamare spazio, voce, possibilità. Per le aziende, ciò si traduce nell’imparare a fare spazio, creando condizioni perché le soggettività possano fiorire.
E allora sì, autodeterminazione è una parola che cambia il lavoro. E la vita.